Un altro leggero passo sul legno caldo, appena rosolato dal sole, sferrato sfilando l’ultimo bicchiere caduto dalla mano la sera precedente. Ancora una volta risorto in un mare di dolore sfuggendo il presto o tardo annegamento. Il dolore alla testa che preme come tenaglia e il gusto del fallimento, come sempre amaro, spogliato del dolce di una grande impresa, poche ore prima. Grande impresa grande fallimento. Ma almeno, quel legno caldo di quel terrazzo affacciato sul trampolino delle piccole cose… Quel tiepido legno. Camminare facendosi dolcemente carezzare i piedi da quel tepore. Un tepore evidenza della vita, come direbbero gli americani, evidenza. Questa è l’unica cosa sopportabile dell’estate. Cosa? Il fatto che stia morendo, rantolando in lunghe proiezioni crepuscolari fino all’ultimo sussulto. In quel modo l’estate è cosa passabile. Noiosa inefficiente falsa musa. In ricordo della sera precedente. Questo l’unico dubbio. Che sera precedente può essere una sera che di poco precede un tramonto? Null’altro che il mattino di Frallo. Il mattino di Frallo Kiulinski. Un’alba che nasce non prima delle sei e trenta della sera, e senza idea di quando tramonti. Almeno, non si arriva a vederlo. La felicità è sensazione fissa, martellante idea che blocca ogni e qualunque altro pensiero. Questo legno caldo è la mia fissa. Questo terrazzo è il ponte di una nave che non va da nessuna parte, per quanto il mal di terra si senta benissimo su questo ponte proiettato verso il calore di tutte le mie idee: questo è il focato flusso della mia coscienza che emerge dalle piante dei miei piedi. Questa insignificante felicità è l’unico mio chiodo fisso, mentre riconosco solo questo calore e in null’altro credo in questo momento. Non ho voglia di credere in nient’ altro che nel calore che sale dai miei piedi, uniche sonde della mia vita, uniche evidenze del sentire umano. Ecco cosa dirò a mio figlio quando mi chiederà di indicargli la strada verso la città del piacere. “Caro figlio: camminare sul tepore di un legno è la via verso l’illuminazione. Accarezzare il tepore delle proprie idee, sfiorando l’affetto di un legno al calar del sole, senza nulla pensare”. Questo dirò a mio figlio, che attonito mi riserverà uno sguardo da dedicarsi ai pazzi, quando non offrono più alcuna chance alla realtà. “Mio padre è un folle, gentili amici, ed il vostro amico è figlio di un folle, per cui, abbiate pietà di lui!”. E poi un sorrisetto conquistatore ed ilare coprirà tutto con il calore di una nuova sensazione. Ma forse in quel momento capirà che questa è felicità. Un semplice cammino accompagnato da un po’ di calore che sale dal basso e scalda ogni cosa. Il cuore nei piedi, anche questa può essere felicità. Ma poi cercare altre scuse e altre immagini di piccolo spessore. Rincorrere un equivoco lasciando stare tutto il resto. Riempire un sacco di equivoci senza nasconderlo dietro le spalle, sbirciando ogni tanto un nuovo piccolo tesoro, un nuovo piccolo equivoco. Sì, ecco, il figlio unigenito della follia, in un campo di farfalle. È nata una schiatta di folli, di esperti collezionisti di equivoci. Lascia che scivoli un tuo grido nella tasca di un errante e la tua voce girerà il mondo. Tu l’aspetterai in punto di morte sperando ti sussurri anche solo poche parole, testimoni delle loro avventure. Queste sono parole degne di essere trasmesse ad un figlio, tali da farti conquistare l’Olimpo della dimenticanza. La fissa di un legno caldo, questo era mio padre: un uomo che cercando con lo sguardo trovò con i piedi. Quanto silenzio non fu mai scritto e quante parole non furono dette e quante inutili lasciate andare in fiumi di sensazioni e simboli. Quante parole può regalare un uomo ad un altro, quanti preziosi propri singhiozzi può un uomo donare ad un altro; infine il dono più grande: l’oblio. Dimentica il legno, il profumo ed il sapore dimentica tuo padre, dimentica tuo figlio ed ogni affanno, dimentica che c’era un tempo vita, dimentica che ogni ricordo fa sanguinare. Le parole non son dette per restare, nemmeno quelle nate su candida carta, anch’esse sono nate tronche. Senza speranza di durare sono fredde testimonianze del vento, unico strumento che possa suonarle per voce o per onda, quando un foglio naviga tra un sospiro e l’altro fino a cadere ove non v’è più eco. Lasciamo dunque le nostre parole e i nostri pensieri come petali sfogliati dai nostri desideri, in una raccolta di margherite spiumate, antologia di punti gialli. Abbandoniamo al vento dell’esistenza le false speranze; che si schiantino contro questo muro di solida inutilità. Scriviamo su tutti i muri del mondo le nostre parole in attesa che siano cancellate, scriviamole solo nella speranza siano cancellate, nella speranza di conquistare un angolo di nulla. Se tu fossi in grado di rispondere alla domanda: cosa desideri? Io potrei dimostrarmi mago migliore potendo anticipare la tua risposta: essere più ricco. Sì, essere più ricco, perché saresti povero. Non posso augurare a nessuno le aridità di una vana corsa, posso solo suggerire una continua ricerca madre e figlia di se stessa. E’ così che l’uomo errante alla ricerca di un tesoro senza nome si perde e dimentica, sorridendo, spoglia di tutti i petali il proprio fiore.

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